L'ANTICA ARTE DEI FLAUTAI IN UNO STUDIO SU "FORTUNO" MAESTRO TORNITORE DI BRUMANO
di di S. Zonca - Tratto da Ricerca

Anche l’ultimo flautaio di Brumano ha cessato la sua attività e si è ritirato in pensione, senza poter lasciare dietro di sé alcun erede a perpetuare la tradizione di famiglia, a tenere in vita un mestiere altrimenti destinato all’estinzione. Sono passati i tempi in cui i “siglòcc”, i “sìoi” e le trombette colorate di Fortunato Angiolini, detto Fortuno, riempivano le gerle dei venditori ambulanti e rallegravano le bancarelle dei mercati e delle fiere di tutta la bergamasca. Una partita di questi strumenti, che trent’anni fa Fortuno e la sua famiglia costruivano a migliaia alla volta, aveva persino raggiunto il Nuovo Continente, portando un po’ della terra natale anche ai valdimagnini emigrati in a America. Poco alla volta, gli zufoli di plastica hanno rimpiazzato quelli tradizionali in legno, fino ad essere a loro volta accantonati in favore di nuovi e più moderni giocattoli. E di giocattoli si trattava, infatti, venivano venduti a due o cinque centesimi per far divertire i ragazzi.


Sopra Fortunato Angiolini all'opera


Esemplare di Flauto a 3 fori (sìoi)

I flauti dell’Angiolini non avevano pretese di impeccabile sonorità e precisione di accordo, basando la loro costruzione più su un criterio quantitativo che qualitativo. Ciò è ben dimostrato da uno studio di Piergiorgio Mazzocchi e di Valter Biella, ricercatori entrambi ed eccellenti conoscitori delle tradizioni e del folclore delle nostre valli. Diversi anni or sono, i due sono riusciti a convincere Fortuno (classe 1909) a rispolverare il vecchio tornio a pedale rivelatosi ancora efficiente e i suoi strumenti originali di lavoro per riproporre davanti alla macchina fotografica e alla telecamera le fasi di costruzione tramandate di generazione in generazione fino a lui. L’anziano tornitore di Brumano ricordava alla perfezione le tecniche esercitate tanto a lungo insieme al padre, ai quattro fratelli e a uno zio e i gesti necessari per trasformare la legna di “nisöla” (nocciolo), di “asèr” (acero) o ciliegio negli  oggetti finiti. Con pazienza, Mazzocchi e Biella hanno raccolto a viva voce di Fortunato la testimonianza dei nomi dialettali attribuiti ad ogni singola azione e ad ogni attrezzo impiegato nella realizzazione dei flauti creati, come confermato dagli esemplari originali in possesso di Piergiorgio Mazzocchi, tutti in maniera simile ma con lievi differenze dovute alla mancanza di misure e specifiche precise. Così ciascuno dei flauti a 7 + 1 fori (“siglòcc”), dei sei flauti a 3 fori (“sìoi”) e delle 2 trombette analizzati ha rilevato di essere stato “forato” a memoria, senza l’impiego di alcun calibro, e di offrire quindi prestazioni assai diverse da quelle degli altri esemplari della medesima partita.  Questa dissimilitudine di potenzialità sonore costringeva i pochi virtuosi di tali strumenti a lunghe e laboriose ricerche tra i campioni in vendita sulle bancarelle per impossessarsi di quello più soddisfacente per sonorità ed intonazione. In merito alla possibile perdita, da parte di Fortuno, di uno strumento per la precisa misurazione della distanza tra i fori, Mazzocchi e Biella scrivono, nella  relazione conclusiva della ricerca: “ non è da pensare che un utensile simile sia andato perso col tempo, vista l’estrema cura con cui ogni ferro è stato conservato, in perfetto ordine in una cassa porta-utensili.  È altrettanto improbabile che Fortunato si sia scordato di una simile operazione: per troppi anni ha lavorato a fianco del padre e dei fratelli e nella costruzione fattaci come esempio ha dimostrato di essere ancora perfettamente abile e preciso, come se la professione di tornitore non avesse subito nel tempo alcuna interruzione”. Gli utensili a cui si riferiscono erano formati da una parte metallica forgiata dal fabbro o, negli strumenti più semplici, dagli stessi tornitori, inserita in un grosso manico in legno sul quale veniva avvolta la corda tesa tra il pedale del tornio, in basso, e un grosso ramo d’acero, lungo 6/7 metri in alto che, con la sua elasticità, fungeva da molla di ritorno.Il manico dell’arnese utilizzato di volta in volta, veniva fissato tra una contropunta (“pèncèröl”) e una lunetta (“pégaza”) e ruotava sia in senso orario che antiorario, alternativamente.

Per questo motivo, come fanno notare Mazzocchi e Biella, “gli utensili per forare hanno due angoli di taglio per lavorare sia all’andata che al ritorno, con la caratteristica forma a cucchiaio”. Le operazioni di costruzione degli zufoli iniziavano con la sgrezzatura dei dischi di legno precedentemente preparati con la sega e tagliati con un calibro detto “misüra”. I dischi già della lunghezza degli strumenti finiti venivano quindi divisi in quarti utilizzando una scure dalla forma particolare (“manèra”) e forati per tutta la lunghezza con il “tinivlì” fissato al tornio. Con il “rampì” si procedeva alla prima sgorbiatura dello strumento, mentre il “móndadur” serviva per la successiva rifinitura. Il foro conico longitudinale veniva eseguito fissando al tornio la “capéta” mentre la preparazione dei fori per le dita e per il labium veniva eseguita ponendo il flauto in un legno incavato che fungeva da riparo per le mani e agendo con lo “sgurbì” prima e con la “lansèta” poi. Si procedeva, a questo punto alla lavorazione, alla tintura per immersione nell’anilina rossa che donava il caratteristico colore violaceo agli strumenti. Veniva poi intagliata la parte inclinata del labium (“léguèta”) grazie a uno strumento chiamato “scopél” che veniva spinto con forza contro il flauto appoggiato alla “médaia”, una protezione in legno che il tornitore si legava attorno al collo. Il segreto che faceva degli Angiolini dei flautai assai ricercati consisteva nella correzione dell’interno del condotto dell’aria (“léguèta”) che da semicircolare veniva trasformata in rettangolare con l’ausilio dello “scopélì”, un piccolo scalpello. Tale era la fama del piccolo trucco della famiglia che, hanno scoperto i due autori dello studio, “a tale abilità si affidavano altri costruttori, sia di flauti che di richiami per uccelli (il pivero), che portavano agli Angiolini i flauti semilavorati per “farli suonare”. Perché lo zufolo fosse pronto per il trasporto a spalla a Selino da dove poi superava i confini della provincia, mancava il “ghérol” ossia la zeppa di legno di castagno da infilare nella testa del flauto dopo averla privata di una striscia per consentire il passaggio dell’aria. Questa operazione era denominata “taià só  la crapa al sìol” e, come le precedenti veniva ripetuta centinaia di volte una per ognuno dei flauti prodotti in serie, in modo da ottimizzare la lavorazione abbattendo i tempi morti causati dal cambio continuo degli utensili sul tornio. Fortuno e i famigliari che lavoravano con lui avevano impiantato una vera e propria catena di montaggio all’interno della quale ciascuno
espletava una precisa funzione e collaborava parzialmente alla creazione del flauto finito.

Questo sistema consentiva agli Angiolini di produrre qualcosa come cinquantamila flauti l’anno che raggiungevano i più lontani mercati. Stupisce che, grande costruttore quale è stato, Fortuno Angiolini non abbia mai imparato a suonare i suoi strumenti. Per verificare il funzionamento egli è in grado di eseguire una semplice scala sul flauto a 3 fori ma non altrettanto per il più complesso esemplare a 7 + 1 fori. Piergiorgio Mazzocchi e Valter Biella hanno dovuto quindi ricercare altrove le informazioni relative alla diteggiatura degli strumenti, alla posizione cioè che le dita dovevano prendere sui fori per ottenere determinate note. Alcune testimonianze di suonatori “a orecchio”, vale a dire privi di nozioni di teoria musicale, hanno portato i due studiosi a raccogliere un repertorio di melodie popolari e ad individuare una sensibile somiglianza tra le posizioni tenute dai suonatori di flauto e quelle prelevate dalla tradizione dei suonatori di “baghèt”, l’antica piva bergamasca. La loro incursione nel mondo degli strumenti tipici e ormai scomparsi non si ferma comunque qui, promettono, ma si propone come primo passo all’interno di un percorso di etnomusicografia, di quella materia che, saggiamente, indaga gli aspetti della produzione musicale di un popolo per trarne osservazioni in grado di far luce sui lati ancora sconosciuti dei precedenti abitanti di un tratto di territorio circoscritto. “Ditemi come suonavate, cantavate e ballavate e vi dirò chi siete”. Questo, in sintesi, lo spirito che ha animato lo studio di Mazzocchi e Biella sui flauti valdimagnini e questo lo scopo che sicuramente, continueranno a perseguire nel corso delle loro future ricerche.

 

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