PIVA E MUSA, SUPERSTITI DI UN NAUFRAGIO
di Piergiorgio Mazzocchi - Tratto da "La Padania" 12 marzo 1999


Angioletti Baghetèr al Castello di Bianzano

Nell’articolo pubblicato venerdì scorso abbiamo fatto una carrellata sugli strumenti della famiglia degli aerofoni, ossia le cornamuse, a livello europeo; oggi vorrei analizzare invece la situazione in Padania. Come già accennato, questi strumenti erano usati un po’ ovunque anche da noi e lo confermano le numerose testimonianze di vari cronisti e scrittori dei secoli passati e le scene con suonatori rappresentate nei quadri e negli affreschi. Purtroppo, da noi si è perso molto di più rispetto ad altre zone come ad esempio la Francia. Difficile analizzare e ricercare le cause di queste scomparse; le più evidenti parrebbero essere l’introduzione dell’organetto diatonico e della fisarmonica a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, i mutati gusti musicali con nuovi balli come il valzer, la mazurka, la polka rispetto alle manfrine, le curente, le pive ed altre danze di origine medievale o rinascimentale, e le scarse possibilità dal punto di vista esecutivo.

Alcune zone conservano ricordi, anche se vaghi, di suonatori che periodicamente si presentavano nei paesi, soprattutto nel periodo natalizio, a dimostrazione di una certa "resistenza" da parte di alcune comunità. Sono state raccolte dai vari ricercatori locali numerose testimonianze, dalla Liguria al Piemonte e Valle d’Aosta, dalla Lombardia al Trentino dal Veneto al Friuli, ma non sono mai state trovate tracce di strumenti e tanto meno informazioni sui suonatori tranne pochissime eccezioni. Partendo dalle meno importanti in quanto a reperti, una di queste eccezioni è costituita dal ritrovamento in una antica casa della valle Verzasca in Ticino (Svizzera) di un frammento di piva. 

Lo strumento completo non esiste più, ma ne abbiamo una rappresentazione in un quadro di fine ’800 dipinto da un pittore locale. Questo è, oltre ai baghècc bergamaschi, l’unico pezzo rimasto, ad oggi, in tutto l’arco alpino, non soltanto italiano ma di tutto il continente. Sorte migliore è toccata invece all’Appennino padano, dove è rimasta la piva sulla montagna modenese e la müsa nella zona delle quattro province. In quest’ultima zona, è rimasto ed è fortemente vivo l’uso del piffero, strumento ad ancia doppia suonato direttamente in bocca, dal suono potentissimo ed usato per il ballo. Ed è proprio grazie alle danze che questo strumento, precursore del clarinetto, è sopravvissuto.

Originariamente, fino alla fine degli anni ’30, veniva accompagnato dalla müsa, sostituita poi dalla fisarmonica, ma il piffero non ha mai smesso di essere usato. L’ultimo grande, mitico pifferaio della vecchia generazione è stato Ernesto Sala di Cegni (Pavia). Molti altri però continuano nella tradizione: ne cito solo uno per ragioni di spazio e perché anche lui è già un mito, in quanto è pure l’unico costruttore di pifferi e müse rimasto nella quattro province. Si tratta di Ettore Losini di Degara, frazione di Bobbio, in arte "Bani". La müsa è composta da un "chanter" (canna del canto) a sette fori, un bordone che viene appoggiato sull’interno del gomito destro, il sacco che viene tenuto sotto l’ascella sinistra e gonfiato con una cannella più piccola che fa da insufflatore; ha un suono molto acuto e potente, è in "Do" e intonata un’ottava sopra il piffero (Sol). Essa faceva da accompagnamento a quest’ultimo creando un dialogo musicale del tipo bombarda-biniou bretone. La piva dell’Appennino modenese, detta piva del carner, ha una struttura differente: consta infatti di un otre e due bordoni; il maggiore, di dimensioni notevoli, è appoggiato sulla spalla sinistra, il minore sul gomito destro; il charter con sette fori più uno è intonato in Sol ed era usato come strumento solista o con altri strumenti. Ne sono rimasti alcuni completi, gelosamente custoditi dalle famiglie dei suonatori.

Della piva possediamo anche testimonianze fotografiche, ma purtroppo non c’è stato quel trait d’union vitale tra la vecchia generazione di suonatori e quella nuova. Insieme alla ricostruzione dello strumento in base ai modelli preesistenti, si è adottata una diteggiatura simile a quella originale. Nulla purtroppo è sicuro, come incerto, anche se ci sono delle labili testimonianze, è lo stile che caratterizzava la piva del carner. È chiaro comunque che è già un’ottima cosa aver conservato questi strumenti.

Non possiamo stare a cavillare su un’acciaccatura o un glissato quando altri hanno perso molto di più; l’importante infatti è che queste cornamuse abbiano ripreso a suonare grazie a molti appassionati e cultori delle loro tradizioni, e che ancora oggi tengono viva la fiaccola della nostra identità padana nonostante il pericolo della globalizzazione.
 

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