Gioanì
òm sènsa pura
Luogo: Torre de' Busi
Analogie: Storie del Gioanì si ritrovano in tutta la Padania
Narratore:
Antonio Tiraboschi introduzione e riadattamenti a cura di Mirko Trabucchi


Georg Sluyterman von Langeweyde (1903 - 1978) - Rast in der Heide


Prefazione -
Un’antica Saga Indoeuropea

Quanti sogni ha popolato il buon “Gioaní òm sènsa pura” (Giovannino uomo senza paura), lo stesso Luciano Ravasio nel testo della sua canzone “Nóna Teresa” apparsa sull’album “L’è de’Lbì” ne rammenta la figura. Ma chi era esattamente ol Gioaní?

In molte fiabe e leggende dell’arco Alpino Padano la figura del Gioaní è comunemente descritta come un giovane eroe popolano, di statura minuta ma nel contempo forte, prodigioso, un po’ donnaiolo e amante delle tavole imbandite. Egli era in grado di superare con tenacità qualsiasi difficoltà, liberando le genti dalle proprie afflizioni e venendo ricompensato dall’amore di una giovane e grandi libagioni. Insomma tutte le carte in regola per essere definito un supereroe d’altri tempi.

Anche in Bergamasca ritroviamo molti racconti che lo vedono come protagonista. Ma veniamo ora ad indagare brevemente sulle possibili origini di questa figura così ampiamente diffusa.

La storia, sin dall’antichità, ha sempre narrato le gesta di eroi semidivini, si basti pensare al mondo classico sino ad arrivare agli eroi & divinità delle saghe Celtiche, come Cú Chulainn. Ol Gioaní, quasi certamente rientra in questo medesimo contesto di epica popolare europea, narrato e diffuso sottoforma di saga epica dai bardi e cantastorie Alpino Padani. Il popolo ne ha tessuto le gesta dinnanzi ai focolari domestici, trasmutando la saga in fiaba e leggenda, affidando così alla nostra tradizione orale la conservazione dell’impianto epico mitologico.

Lo studioso di cultura bergamasca Antonio Tiraboschi raccolse una fiaba del Gioanì e la trascrisse in bergamasco (il manoscritto si trova tutt’ora conservato presso la biblioteca storica Angelo Maj in Bergamo Alta) e anche lo scrittore Italo Calvino nel suo celeberrimo “Fiabe Italiane” riportò una fiaba generica sul “Giovannin senza paura”*.

Riportiamo di seguito la versione della fiaba con l’impianto principale del Tiraboschi, con le varianti provenienti dalla Val San Martino, più precisamente dalla zona di Torre de’ Busi.


"Cuchulain Slays the Hound of Culain"
illustrazione di Stephen Reid da The Boys' Cuchulain di Eleanor Hull, 1904


Gioanì
Sènsa Pura e i Trì Morcc

Il buon Gioaní era un ragazzo del paese che faceva il calzolaio. Un giorno stanco del suo lavoro monotono decide di cambiar vita e di andare a cercare fortuna in città.

Arrivato in città inizia a percorrerla a piedi domandando qua e là agli abitanti quali opportunità di sistemazione offriva e cosa si raccontava da quelle parti, al fine di orientarsi al meglio. Viene a conoscenza che vi è un maniero sopra una collina, nel quale nessuno voleva alloggiare, in quanto si udivano grida di terrore e lamenti tutte le notti e per questo motivo da molto tempo era abbandonata al decadimento.

Una tradizione del luogo narrava che colui che fosse riuscito a passare ben tre notti consecutive senza fuggire ne sarebbe divenuto il proprietario.

Gioaní è un ragazzo forte e coraggioso, e non ha mai dato segni di essere un codardo, in fondo non ha mai temuto di affrontare gli spiriti maligni in quanto il suo scetticismo è sempre stata la sua arma migliore, per cui la prova anziché spaventarlo lo stuzzica. Decide così di tentare l’impresa, dopo tutto avrebbe risolto tutti i problemi della sua nuova vita e avrebbe vissuto giorni sereni.

Si incammina lungo lo stretto e tortuoso sentiero che conduce al misterioso maniero. I rami degli alberi lo invadono, il fondo in terra battuta è sconnesso e vi sono cresciuti molti rovi. È strano che non vi siano né fiori e profumi, nessun cinguettare di uccelli e nessuna farfalla in volo. Gioanì sale lungo il sentiero sulla collina e con cautela si avvicina al palazzo. I rovi si fanno più intensi e sembrano voler intralciare il suo cammino cercando di strappargli i vestiti e graffiando la sua pelle.

Ormai si è fatto buio e il nostro eroe prosegue con passo sicuro, sino ad arrivare di fronte all’oscura dimora, le cui finestre scure sembrano occhi spalancati e allibiti intenti ad osservarlo. Di fronte ad uno cortile invaso da spine e ortiche c’è un portone spalancato e da quell’atrio proviene una luce, come se tutto fosse stato preparato per l’arrivo di un ospite importante.

Piano piano e prestando massima attenzione entra nel palazzo ma con sua sorpresa non c’è nessuno! Uno scalone conduce al piano superiore ed è ben illuminato da torce accese. Gioaní dimostra subito il suo coraggio e sale i gradini con energia. Con grande stupore la sala signorile, al contrario del sentiero, è perfettamente in ordine e pulita.

Gioaní incuriosito decide allora di esplorare tutto l’edificio visitando lussuose stanze ben illuminate colme di mobili preziosi, dipinti e affreschi, ma non trova traccia di anima viva!

Il nostro avventuriero entra in un grande salone nel quale al centro vi è un grande tavolo rettangolare di legno con il capotavola sorprendentemente apparecchiato per la cena con soli due posti. In fondo al salone c’è un grande camino con il fuoco acceso e un pentolone per far bollire la carne da cui proviene un buon profumino. Gioaní  dopo quella lunga camminata ha fame e va a curiosare alzando il coperchio della pentola e con grande meraviglia vede che sta bollendo a puntino della carne prelibata pronta per essere messa nel piatto, quando sente una voce tenebrosa provenire dalla cappa del camino: Arda ch’a bőté! (guarda che butto!)” e il Gioaní replica “Bőta! Bőta! Ma arda la me pignata! (Butta! Butta! Ma guarda la mia pentola!)” non fa a tempo nemmeno a rispondere  che dalla cappa casca una gamba di un’ uomo e la voce ripete: “Arda ch’a bőté! (guarda che butto!)” e dalla cappa casca l’altra gamba, la voce per la terza volta ripete “Arda ch’a bőté! e  via via nello stesso metodo cascano gli altri pezzi del cadavere, le braccia, il corpo e la testa. A quel punto le gambe cominciano a muoversi e si riattaccano al corpo, stessa sorte spetta alle braccia e alla testa.

Gioaní non si scompone, prende la pentola dal fuoco e invita l’uomo misterioso a sedersi con lui a mangiare. Il nostro eroe più affamato che mai mangia con gusto la carne elogiando il misterioso cuoco, mentre l’uomo rimane zitto senza professar parola.

Una volta terminata la cena Gioaní si dirige verso la camera da letto, da buon montanaro è abituato ad andare a coricarsi presto come le galline, mentre il misterioso personaggio lo segue. Il nostro eroe sceglie la stanza che ha il letto più comodo, si spoglia, si infila sotto le coperte.

L’uomo del maniero cerca di disturbare il sonno del Gioaní, si mette a camminare nella stanza facendo strani rumori e si mette a tiragli le coperte, ma il nostro eroe, da buon lavoratore, si addormenta profondamente con il cuor in pace.

Il giorno successivo al sorgere del sole il palazzo sprofonda in un silenzio irreale. Gioaní si alza, si veste e passa la giornata ad esplorare il maniero sino al calar della sera.

Dopo il tramonto, avendo compreso l’inconsueta cerimonia, il nostro paladino si reca nel salone. Il camino è acceso e come la sera precedente sul fuoco bolle la pentola ed il tavolo è apparecchiato, ma questa volta per tre persone.

Gioaní sentendo un ottimo profumo provenire dalla pentola si avvicina al camino per sbirciare e ode la voce tenebrosa della sera precedente: “Arda ch’a bőté!

Tutto si ripete esattamente come la sera successiva, ma questa volta cade il cadavere intero! La voce inoltre ripete l’avviso ed ecco cadere dal camino un altro cadavere che si aggiunge alla compagnia. La notte procede come il giorno prima, cena silenziosa e mentre Gioaní va a dormire le due salme lo seguono.

Appena il giovane si infila sotto le coperte i due cadaveri si scatenano, lo prendono per le lenzuola e lo strascinano per tutta la casa, su e giù dalle scale, lo battono contro i muri, insomma gliene fanne vedere di tutti i colori.

Il mattino seguente il nostro eroe è ancora frastornato dalla nottata, si alza tardi e rimane a riposare nel silenzioso palazzo, arriva la fatidica terza sera. Tutto si ripete con lo stesso rituale, questa volta la tavola è apparecchiata per quattro persone, e la voce ripete il solito monito “Arda ch’a bőté!, e così cadono uno dopo l’altro tre cadaveri.

La cena come di consuetudine si svolge silenziosa, successivamente ol Gioaní va a dormire come niente fosse. È l’ultima notte e  cadaveri si scatenano in una vera e propria sarabanda e cercano in tutti i modi di terrorizzare e far scappare il nostro eroe, lo buttano perfino in una pentola di olio bollente ma ogni tentativo è vano a farlo desistere.

Così arriva l’alba e la casa ritorna tranquilla e silenziosa, finalmente la natura si risveglia, si odono gli uccelli cantare, i fiori sbocciano ai raggi del sole, i profumi si liberano e tutto sembra rinascere come da un lungo letargo.

In nostro Gioaní aveva rotto la maledizione che teneva confinati in quella dimora i tre defunti. Da quel momento si guadagnò il titolo di “sensa pura”, ol Gioaní sènsa pura!

Bibliografia:

Terra Insubre n° 30 giugno 2004 – Il Giuanìn senza pagüra, un arcaico epos contadino” di Luigi Stadera
Italo Calvino - Fiabe italiane - 1956 Einaudi

*
In appendice riporto la fiaba raccolta da Italo Calvino:

Giovannin senza paura

C'era una volta un ragazzetto chiamato Giovannin senza paura, perché non aveva paura di niente. Girava per il mondo e capitò a una locanda a chiedere alloggio. - Qui posto non ce n'è, - disse il padrone, - ma se non hai paura ti mando in un palazzo.
- Perché dovrei aver paura?
- Perché ci si sente, e nessuno ne è potuto uscire altro che morto. La mattina ci va la Compagnia con la bara a prendere chi ha avuto il coraggio di passarci la notte.
Figuratevi Giovannino! Si portò un lume, una bottiglia e una salciccia, e andò.
A mezzanotte mangiava seduto a tavola, quando dalla cappa del camino sentì una voce: - Butto?
E Giovannino rispose: - E butta!
Dal camino cascò giù una gamba d'uomo. Giovannino bevve un bicchiere di vino.
Poi la voce disse ancora: - Butto?
E Giovannino: - E butta! . e venne giù un'altra gamba. Giovannino addentò la salciccia.
- Butto?
- E butta! - e viene giù un braccio. Giovannino si mise a fischiettare.
- Butto?
- E butta! - un altro braccio.
- Butto?
- Butta!
E cascò un busto che si riappiccicò alle gambe e alle braccia, e restò un uomo in piedi senza testa.
- Butto?
- Butta!
Cascò la testa e saltò in cima al busto. Era un omone gigantesco, e Giovannino alzò il bicchiere e disse: - Alla salute!
L'omone disse: - Piglia il lume e vieni.
Giovannino prese il lume ma non si mosse.
- Passa avanti! - disse l'uomo.
- Passa tu, - disse Giovannino.
- Tu! - disse l'uomo.
- Tu! - disse Giovannino.
Allora l'uomo passò lui e una stanza dopo l'altra traversò il palazzo, con Giovannino dietro che faceva lume. In un sottoscala c'era una porticina.
- Apri! - disse l'uomo a Giovannino.
E Giovannino: - Apri tu!
E l'uomo aperse con una spallata. C'era una scaletta a chiocciola.
- Scendi, - disse l'uomo.
- Scendi prima tu, - disse Giovannino.
Scesero in un sotterraneo, e l'uomo indicò una lastra in terra.- Alzala!
- Alzala tu! - disse Giovannino, e l'uomo la sollevò come fosse stata una pietruzza.
Sotto c'erano tre marmitte d'oro. - Portale su! - disse l'uomo.
- Portale su tu! - disse Giovannino. E l'uomo se le portò su una per volta.
Quando furono di nuovo nella sala del camino, l'uomo disse: - Giovannino, l'incanto è rotto! - Gli si staccò una gamba e scalciò via, su per il camino. - Di queste marmitte una è per te, - e gli si staccò un braccio e s'arrampicò per il camino. - Un'altra è per la Compagnia che ti verrà a prendere credendoti morto, - e gli si staccò anche l'altro braccio e inseguì il primo. - La terza è per il primo povero che passa, - gli si staccò l'altra gamba e rimase seduto per terra. - Il palazzo tientelo pure tu, - e gli si staccò il busto e rimase solo la testa posata in terra. . Perchè dei padroni di questo palazzo, è perduta per sempre ormai la stirpe, - e la testa si sollevò e salì per la cappa del camino.
Appena schiarì il cielo, si sentì un canto: Mieserere mei, miserere mei, ed era la Compagnia con la bara che veniva a prendere Giovannino morto. E lo vedono alla finestra che fumava la pipa.
Giovannin senza paura con quelle monete d'oro fu ricco e abitò felice nel palazzo. Finché un giorno non gli successe che, voltandosi, vide la sua ombra e se ne spaventò tanto che morì.

Note

Inizio la raccolta con una fiaba per la quale, a differenza che per tutte le altre, non cito la versione che ho seguito, perché le versioni delle varie regioni italiane sono molto simili e io mi sono tenuto liberamente alla tradizione comune. Non solo per questo mi piace metterla per prima, ma anche perché è una delle fiabe più semplici ed anche, per me, una delle più belle. Non fa una grinza, come il suo imperturbabile protagonista; si distingue dalle innumerevoli <storie di paure>, a base di morti e di spiriti, perché dimostra verso il sovrannaturale una tranquilla fermezza che dà tutto per possibile, senza sottostare alla soggezione dell'ignoto. E poi mi piace cominciare con questa perché è forse l'unica di cui ho un ricordo famigliare: rammento che mio padre ne parlava come d'una storia da lui sentita da ragazzo, da vecchi cacciatori nell'antico dialetto di Sanremo. (Ma era da un albero che cadevano gli arti umani, <A geccu?> <E gecca!>). La tradizione italiana in genere segue uno schema di racconto che mi pare si distacchi notevolmente da quello - più diffuso in Europa - della Storia di uno che andò in cerca della paura dei GRIMM (4; più vicina forse alla nostra 80). Il tipo pare certo sia d'origine europea; non si ritrova in Asia. La sparizione dell'uomo a pezzo a pezzo non è nella tradizione; l'ho messa io di mia invenzione, per simmetria con l'apparizione a pezzo a pezzo. Il finale dell'ombra l'ho preso da una versione senese (DEGUB. 22), e non è che una semplificazione del finale più diffuso: a Giovannino dànno un unguento per riappicciacare le teste tagliate; lui si taglia la sua e la riappiccica all'incontrario; si vede il didietro e ne prende tanta paura che ne muore.

Ho visto versioni, spesso non lo stesso titolo, raccolte tutte nell'Italia settentrionale e centrale: Lombardia (TIRABOSCHE. Gioani senza pura), Veneto, Friuli, Trentino, Venezia Giulia (G.L.PATUZZI, A proposito d'una fiaba, Verona 1895; ZORZ.p.162; SCHN.52; PING.12), Emilia (CORON.S.33), Liguria (ANDR.15,55), Toscana (NER.44, DEGUB.22, PITRE'T.40), Marche (COMP.12, combinata coi tre doni magici). in Sicilia c'è la fiaba del ciabattino, leggermente diversa (GRIS.17).
 

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